Qualche tempo fa sono andato a Vienna. Ci vive Tommaso, un caro amico di Fisica in Erasmus. L’ultima volta che ci ero stato facevo la terza media. Non sapevo cosa fosse la fisica, non avevo ancora letto i libri che oggi considero fondamentali, non sapevo che mi sarebbe piaciuto il giornalismo. Non sapevo molte cose.
Ma una sì: mi piacevano l’ordine e la pulizia. Ai miei occhi di allora Vienna era proprio questo. Una città che profumava. Che brillava talmente era pulita.
Otto anni dopo, non è cambiato molto. Sempre chiara, piccola, eppure imponente.
La Votivkirche mi ha dato il benvenuto.
Ma non è di Vienna che voglio parlare. Non dei palazzi, delle chiese, dei monumenti. Voglio raccontare di un incontro con un ragazzo conosciuto in un pomeriggio grigio, attraverso le sue opere. Si chiamava Matthew Wong e dal nome si capisce che non è viennese. Era infatti un pittore canadese. Si è tolto la vita a 35 anni, poco prima della pandemia.
Non sono un grande frequentatore di musei. Dopo un po’ mi stancano. Proprio nel centro della città c’è l’Albertina e i miei compagni di viaggio volevano andarci. L’esposizione temporanea riguardava proprio Wong. Si intitolava Painting as a last resort. La pittura come ultima risorsa.
Le prime informazioni sulla sua vita colpiscono subito: Wong era depresso, autistico, tourettico. Una vita complicata, apparentemente difficile da condividere con gli altri. Anche i suoi collaboratori più stretti raccontano che non fosse facile stargli accanto. Eppure, senza una scuola, senza un maestro, da autodidatta, ha creato qualcosa che ha fatto eco. Negli ultimi anni della sua vita il mercato dell’arte è impazzito per i suoi lavori. E così la sua figura si è trasformata nella caricatura del genio estraneo e tormentato. Un altro Basquiat. Un altro van Gogh.
Io, di arte, non so molto. Forse niente. Ma a volte non serve.
A volte basta essere disposti. È successo così. Fin dal primo quadro ho sentito qualcosa risuonare.
Era questo:
I colori sgargianti sono un pugno nell’occhio. Il bianco acceso delle betulle contro un cielo arancione, quasi fluorescente. In ci sono mezzo due persone, messe lì come unità di misura, come metro di paragone e creatrici di prospettiva.
Senza di loro il quadro sarebbe piatto, muto.
In quel “spalla a spalla” c’era qualcosa da custodire. Qualcosa di intimo.
E allo stesso tempo una solitudine difficile da dire.
Alla destra del dipinto, un altro. Un’esplosione di blu. Di quelli che sembrano finti.
Una pioggia di spade, e dietro una casetta con la luce accesa. Una promessa, una speranza, una Pace inafferrabile. È proprio lì. Appena davanti a noi.
Ma non ci andiamo, non ci entriamo. Abbiamo i piedi legati.
Guardando questi quadri era chiaro che dipingere, per Wong, non era un’opzione.
Era un’urgenza. Una volta scoperta, non ha potuto più smettere.
Ha continuato, quadro dopo quadro, a tentare di dare voce al groviglio che aveva dentro. “Non dipingere è dolore”, disse a un amico.


Alcuni temi mi hanno parlato direttamente. Credo che ogni brianzolo guardi a Milano come quella sagoma scura e guarda alla città, così distante. La sera, tornando a casa, le luci della città restano lì. Dietro, lontane. È lì che stanno gli amici, le persone a cui si vuole bene, le cose per cui ci si spende. Eppure, si rientra soli. Si torna spettatori.
Ospiti nel silenzio della propria stanza, quando tutti già dormono.
Il quadro che mi ha convinto a scrivere tutto questo è uno degli ultimi. Uno degli ultimi che Wong abbia dipinto.
l mare di nebbia di Friedrich è sceso. "See you on the other side." La distanza tra l’uomo e la casa è incolmabile. La casetta — laggiù, alle pendici del monte — promette pace ma resta irraggiungibile e provoca il desiderio di esserci dentro.
Da un post del Van Gogh Museum ho letto queste parole:
“Wong appears to have wanted to communicate that he would be leaving for good. He only has to cross the plain, and he will be home.”
È quello che ho sentito anche io. Quella casetta vive in uno spazio tutto suo.
Chi guarda la sente gridare. Che lì, forse, si potrà finalmente stare in pace.
Bisogna solo attraversare quello spazio. Quello spazio incolmabile. La morte: ciò che divide dalla Pace.
Ti auguro una buona settimana.
Filippo