Oggi torniamo a parlare di Venezuela. Non è sulle prime pagine dei giornali, come al solito. Ci sono stati boicottaggi da parte delle opposizioni, come al solito. Ha vinto Maduro, come al solito. Sì, è tutto “come al solito”, ma questo solito non dovrebbe esserlo.
Il 25 maggio 2025 i venezuelani sono stati chiamati a rinnovare l’Assemblea Nazionale e i 24 governatori statali. Il Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) ha incassato oltre l’80% dei voti, mettendosi in tasca 263 seggi su 285 e 23 governatorati. Peccato che l’affluenza ufficiale sia del 42% – mentre fonti indipendenti la riducono al 25%. Numeri che gridano “il popolo c’era… o forse no”.
Maduro ha preparato il terreno: tra aprile e maggio oltre 70 attivisti dell’opposizione incluso Juan Pablo Guanipa, fedelissimo di María Corina Machado sono finiti in galera con accuse di “terrorismo” e “sabotaggio elettorale”. Il CNE, organo controllato dal governo, ha tenuto ben stretti i registri elettorali, ostacolando qualsiasi verifica indipendente. Nel frattempo, voli e valichi con i Paesi vicini sono stati sospesi, lasciando gli osservatori internazionali a guardare il deserto. La manovra del partito di governo è stata disegnata con precisione: ostentare apertura, invitare gli elettori alle urne e registrare qualche candidato “autonomo” per vestire il processo di pluralismo, mentre dietro le quinte si stringono saldamente tutte le leve del potere, affinché nulla cambi realmente.
Il risultato? Un’elezione dal sapore surreale: l’82% dei voti va al regime e ogni governatorato torna sotto il controllo chavista. Non è più soltanto “partecipare o boicottare”: la vera domanda è se abbia ancora senso chiamarle “elezioni” quando i cittadini votano nel terrore, senza occhi stranieri a controllare e con l’opposizione messa all’angolo.
Eppure una fetta di opposizione ha scelto di presentarsi alle urne, coraggiosa o forse disperata. Ma senza un piano comune, come sfidare un’avversaria che gioca in casa e cambia le regole in corsa? Se l’obiettivo è ripristinare un’alternativa politica, serve un’alleanza solida, che vada oltre gli slogan.
La comunità internazionale dovrebbe iniziare a guardare al quadro generale: spazi democratici chiusi, prigionieri di coscienza in cella, oppositori esclusi dal voto. Finché questi nodi non verranno sciolti, le urne resteranno soltanto un palcoscenico senza pubblico.
Intanto il Venezuela arranca: crisi umanitaria, esodo di massa, istituzioni al collasso e un’economia in ginocchio. Ripartire dalla democrazia è l’unica via d’uscita, ma senza garanzie reali, tutte le “elezioni” saranno solo un altro atto di quella recita che, purtroppo, conosciamo fin troppo bene.
E come se non bastasse, gli stessi venezuelani che riescono a sfuggire alla morsa di Caracas si trovano alle prese con la politica migratoria di Donald Trump. Una beffa amara: fuggiti tra repressione e povertà per salvare la vita, ora vengono “invitati” a tornare e si vedono offrire mille dollari e un biglietto aereo, con la minaccia di multe, arresti e divieto di rientro per chi si rifiuta.
“Ritorno a casa“ è il nome dell’app dove i migranti irregolari possono registrarsi per rientrare volontariamente. E così Kristi Noem, segretaria per la Sicurezza interna, ha dato il via al programma – promesso il 5 maggio – con i primi 54 migranti. Ognuno, oltre al biglietto aereo, ha incassato un bonus di mille dollari e la promessa di un futuro ritorno negli Usa… quando e se “si potrà”.
Ma, più che sulla carota, si punta sul bastone: “Non ve ne andrete volontariamente? Vi multeremo, arresteremo, deporteremo e non potrete più rientrare”, ha tuonato Noem.
Ma tutto questo non arriva sulle prime pagine e soprattutto non occupa il dialogo della comunità mondiale, come al solito.